Una gran leggerezza d’animo… ti senti libero!
Ancora oggi è nota come “la salita più dura del mondo” o “la salita più difficile d’Europa”. Oggi meta di bikers e ciclisti decisi a mettersi alla prova da un punto di vista sportivo, un tempo la salita della Scanuppia, il suo altopiano, le sue malghe ed i suoi prati erano la montagna degli abitanti di Besenello, luogo di villeggiatura estiva, ma anche risorsa economica fondamentale.
«Ma certo che andavamo in Scanuppia. Guarda che in Scanuppia noi andavamo sempre, tutti gli anni. Quando eravamo ragazzine andavamo in Scanuppia. Venivamo giù dopo tutta l’estate, finite le ferie, perché salivamo a giugno e tornavamo a settembre. Dopo mio marito aveva la moto e veniva su a pranzo e andava giù, perché aveva da lavorare. Ci mettevamo su tutti, uno davanti e uno di dietro.» [Intervista a Lucilla Cucco, nata a Besenello, a cura di Portobeseno]
La scalata è ardua: lunga complessivamente 7,5 chilometri, per un dislivello totale di 1300 metri, con una pendenza media del 17,6% e con un picco massimo del 45%, segnalato da un cartello stradale diventato ormai storico e famoso. Le testimonianze degli abitanti di Besenello riportano il ricordo della fatica dell’ascesa e del lavoro: portare gli attrezzi ed il necessario per raccogliere la legna sull’altopiano, per l’inverno o da vendere, o per raccogliere il fieno per le bestie; tutto su una slitta pesante dai quindici ai venti chili, che andava portata in spalla.
Ma le testimonianze dei besenellotti di allora riportano soprattutto un grande amore per la Scanuppia e un caro ricordo delle estati passate sulla montagna in villeggiatura o a lavorare, dove, assieme alla fatica, arrivava anche la serenità dell’immergersi nella natura e una sensazione di libertà e gioia. Un insegnamento per i giovani besenellotti che sono andati ad intervistarli.
«Un bel giorno, però, il fratello di mio zio si ammalò. Lui faceva un lavoro un po’ strano, a vederlo dai nostri tempi: portava il pane in Scanuppia. Portava su il pane alla gente che era su in ferie. Andavano su alla fine di giugno, appena finite le scuole e venivano giù in settembre. C’erano su gli anziani e i giovani, perché quelli in età da lavoro stavano qui e andavano su il sabato. […] Mio zio decise di farlo lui e io lo accompagnavo. Allora le giornate si sono diversificate subito: il mattino lo usavamo per andare su in Scanuppia e il pomeriggio in campagna. […] Questo lavoro l’ho fatto per tutta l’estate di quell’anno, il 1965, ed è stata una bellissima esperienza. Sono legato alla Scanuppia in un modo morboso. Per me la Scanuppia è tutto. Mi dà soddisfazione; ho una baita su e appena posso vado su. In generale noi besenellotti siamo attaccati alla Scanuppia. Anche i nostri padri e i nostri nonni hanno vissuto la Scanuppia. Era il modo di alimentare all’introito per la famiglia: tagliavano la legna, tagliavano il fieno. Ci sono delle foto che documentano la Scanuppia rasa senza neanche una pianta. A malga Palazzo non c’erano più piante. Hanno portato giù, hanno detto, dopo la Seconda Guerra Mondiale, diecimila metri cubi di legname. […] Trovo una gran leggerezza d’animo. Ti senti libero da impegni, da… non so. Una sensazione di benessere, come. Sei contento, anche senza far niente.» [Intervista a Fiorenzo Battisti, nato a Besenello nel 1953, a cura di Portobeseno]
«Ho cominciato giovane: andavo con la slitta, perché a quindici, sedici anni bisognava andare a fare la legna, perché non c’era il riscaldamento. Prendevamo la slitta sulle spalle. C’era sempre una fila di contadini e operai che partivano la mattina alle sette. E si faceva una fila, magari di dieci, quindici persone. Andando sulla strada ci sono, praticamente, tre o quattro polse (luoghi dove si facevano riposare gli animali, ndr), che le chiamiamo così anche adesso, dove, davanti alla fila, c’era il più anziano, che teneva il passo, praticamente. E lì si metteva giù la slitta, perché pesava sui quindici, venti chili. Perciò, si riposava dieci minuti e dopo avanti. E si andava nel bosco. Allora non c’erano le motoseghe; ci voleva, noi dicevamo in dialetto, il “manarot”, che sarebbe la scure, praticamente. Tagliavamo la legna e, in base alle persone che avevano forza, ci si caricava: chi un quintale, chi due, chi tre; dipende dalla capacità delle persone. Perché dove c’era il terreno pianeggiante bisognava tirare. Sai cosa vuol dire tirare? Coi corni, bisognava tirare, perché in discesa era comodo, ma in pianura bisognava far fatica proprio a tirare la legna. Poi c’erano quelli che aspettavano che arrivasse la neve, perché sulla neve si faceva come con gli sci, praticamente: veniva una pista per gli sci, con la neve battuta. E allora questa slitta, che aveva sotto le lamine di ferro, era comoda da tirare. In discesa bisognava alzarla e tenerla con forza, perché altrimenti ti buttava anche fuori dalla strada. Perché non c’erano i parapetti, come adesso; era un strada libera, con i sassi. Dove passavano le slitte faceva i canali, proprio. In tante strade secondarie se andate vedrete i sassi consumati proprio, a forza di passare con le slitte.» [Intervista a Giuseppe Lucchetta, nato a Besenello nel 1938, a cura di Portobeseno]
«La gente viveva quasi tutta sulla campagna. Si andava in Scanuppia e c’era un affare da portare quando si andava in Scanuppia a fare la legna: la slitta. […] Bisognava portare quella là (indica la slitta ndr), qualcosa da mangiare e da bere e gli attrezzi, anche, da fare la legna. […] Si lavorava la campagna, la terra, con i cavalli o i buoi. Le famiglie che avevano un pochettino meno soldi magari avevano un asinello; qualcuno usava la mucca anche per andare in campagna. D’estate si andava in Scanuppia a fare il fieno; i bambini andavano a raccattare le sementi, i tralci delle viti, per fare il fuoco, sai? La legna grossa un tempo, quando io ero come voi, un po’ più grande anche, la vendevano per prendere qualche soldino.» [Intervista a Giorgio Piffer, nato a Besenello nel 1935, a cura di Portobeseno]
Credit materiale: progetto Portobeseno
Commenti recenti