La discriminazione delle donne è legittimata anche giuridicamente

 

Le famiglie degli anni Cinquanta sono numerose. Lo sono anche perché non esiste il controllo delle nascite: l’educazione cattolica, fortemente influente nel panorama italiano del decennio, interpreta l’atto sessuale come volto unicamente alla procreazione.

 

Gli anticoncezionali – fra i quali il più diffuso è il “condom” – e l’intera sfera sessuale sono ancora un tabù.

 

Non solo, l’articolo 553 del codice penale (in vigore fino al 1971) vietava la propaganda e l’uso di qualsiasi mezzo contraccettivo, con una pena, in caso di trasgressione, sino ad un anno di reclusione.

 

«Le donne sposate avevano il problema dei figli, perché l’ordine era: “Fate tutti i figli che Dio vi manda”. Naturalmente ogni coppia si arrangiava come poteva, almeno quelle più disinibite, perché le altre sottostavano alle regole ecclesiastiche. E quindi il problema era per le donne, perché i mariti di solito facevano quello che dovevano fare, mentre era la moglie poi a dover sopportare il carico famigliare.» [Intervista a Iole Gregori, nata a Gardolo nel 1939]

 

Il Codice Penale vigente prevede, oltre all’istituzione del matrimonio riparatore (in caso di violenza carnale), una punizione diversa per le donne rispetto agli uomini in caso di adulterio: se a tradire è la moglie il delitto d’onore è legittimo.

 

Sul piano socio-culturale la discriminazione non è da meno, soprattutto nei confronti di donne con figli nati al di fuori del matrimonio, che vengono spesso allontanate dalla famiglia perché motivo di disonore. L’opinione pubblica le giudica severamente e i loro figli sono dichiarati illegittimi e portano l’onta di essere figli di “NN” ovvero di padre “non noto”.

 

«Un figlio illegittimo eradi contrabbando”. Ad esempio il Luigi, che non aveva il padre, figurava figlio di “NN”, cioè un figlio di contrabbando. Tu pensa alla parola contrabbando: un figlio che avevi con uno, che magari era il padrone, perché allora andavano a servizio e spesso i padroni si approfittavano delle donne di servizio; poi venivano al paese con questo bambino. Ti rendi conto come era definito? Un figlio fatto di contrabbando: è stato concepito come tutti, eppure era visto male nel paese. So che c’era uno, che dicevano: “Ah, ma l’è fiol de contrabbando! La l’ha avù de contrabbando”. Cose proprio fuori dal normale. Certi li mettevano in orfanotrofio, li chiamavano “fioi de anima”; alcuni se li prendevano quelli che non avevano figli, e la gente diceva: “Poreto, l’è en fiol de contrabbando e lori i lo ha tira su”.» [Intervista ad Alma Meggio, nata a Strigno nel 1940]

 

«Le donne con figli illegittimi erano povere derelitte, abbandonate, espulse dalla famiglia, che non le voleva più. Noi dovevamo trovare un posto in cui metterle; e i bambini nell’istituto o all’IPAI (Istituto Provinciale Assistenza Infanzia) insieme alla madre per il periodo dell’allattamento, ma poi… i genitori le mandavano via di casa. Io ho lavorato 10 anni – fino al 1960 – ad Arco e avevo 42 bambini in assistenza, da 0 a 14 anni. Per la famiglia era un’onta che la propria figlia avesse un figlio illegittimo.

Le madri illegittime erano l’ultimo gradino della scala sociale e loro, poverine, si sono sentite così tutta la vita. Mi ha raccontato un’amica, che era molto amica di una di queste donne, che spesso questa ripeteva: “Sì, sì sono io quella, quella che ha avuto il figlio”. Si è sentita espulsa dalla società tutta la vita. Trovavano lavoro, però erano guardate male.

A me, poi, facevano pena quelle che mi dicevano: “Ma no, ha detto che viene [il padre, N.d.R.]”. Andavo a dire loro che in dieci giorni bisognava andare in comune a segnare la nascita. “No, ma ha detto che viene a riconoscerlo” e aspettavano, aspettavano, uno che non veniva mai. Che disperazione che ho visto nelle donne che credevano che il padre andasse a riconoscere il figlio.

Se riuscivano a sistemarsi da sole, fare un lavoro e tenere il bambino, e anche la Provincia dava un sussidio, bene. Altrimenti li portavamo a famiglie in affidamento, fino al tempo della scuola. Ma poi andavamo a prenderli per portarli in alcuni istituti, come a Sant’Ilario, a Levico. Qualche volta i nonni si affezionavano. Non era mica detto che venissero tutti abbandonati.» [Intervista a Lucia Fontana, nata a Rovereto nel 1923]

 

Intervista a Iole Gregori, nata a Gardolo nel 1939:

 

 

Intervista ad Alma Meggio, nata a Strigno nel 1940:

 

 

 

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