La povertà e l’essenzialità dentro le mura di casa
Le case degli anni ’50 rivelano ancora i segni evidenti della distruzione lasciata dalla guerra. Nonostante la ricostruzione, la società è ancora molto povera. Questa condizione economica si riflette sul modo di vivere e sulle case, sia in quelle delle valli sia in quelle di città, anche se, lentamente, nel capoluogo inizia a diffondersi uno stile di vita più confortevole.
La coabitazione è molto diffusa, giovani sposi con figli vivono nella stessa casa con i genitori o altri parenti. È ancora diffuso il modello della famiglia patriarcale composta da più generazioni. Verso la fine del decennio si registra un cambiamento anche grazie all’aumento del numero delle nuove abitazioni, che in provincia raggiunge quota 112.477.
Le case dei centri rurali sono solitamente in pietra con ampie parti in legno, in particolare tetti, soffitte, scale e balconi. Generalmente accanto all’abitazione c’è la stalla e una cantina per la conservazione del vino, della frutta o di alcuni cibi. Nel sottotetto sono stivate le scorte della legna da brucio che il comune autorizza a prelevare dalla proprietà boschiva comunale.
L’acqua corrente è generalmente presente, perché gli acquedotti sono stati attivati, anche se in molti paesi del Trentino è ancora diffusa l’abitudine di lavare i panni o di andare a prendere l’acqua direttamente alla fontana pubblica del paese.
Le abitazioni sono generalmente fredde. La stanza principale, nella quale si trascorre la maggior parte del tempo, è la cucina, anche perché è la più calda: infatti in tutte le case, eccetto quelle più benestanti che possono permettersi la stufa a cherosene o le caldaie a gasolio, la principale fonte di riscaldamento è la stufa a legna, situata proprio in cucina e utilizzata anche per cuocere i cibi.
Le stanze da letto sono solitamente due, una è riservata ai genitori e l’altra ai figli. Per rendere più confortevole il riposo notturno si utilizza spesso la “munaga” o “monega”, un particolare scaldaletto. Per combattere il freddo non è raro che si dorma tutti nella stessa camera.
Per la gran parte della abitazioni trentine non si può ancora parlare di arredamento a causa della limitata disponibilità economica e ci si arrangia con lo stretto necessario. I mobili, generalmente in arte povera, talvolta camuffati da una vernice colorata, rasentano l’essenzialità: una credenza dove conservare stoviglie e bicchieri, qualche mensola, un tavolo con le sedie o una panca su cui mangiare, studiare o impastare. Nelle camere: il letto, l’armadio e in casi fortunati un tavolino per studiare.
I Bagni
Nelle case rurali le condizioni di abitabilità lasciano a desiderare: la caratteristica principale di questo decennio infatti rimane la presenza del bagno prevalentemente all’esterno della casa, secondo la tradizione e la regolamentazione asburgica. Il modello più diffuso è il “gabinetto a caduta”, uno sgabuzzino, solitamente in legno e collocato sul balcone, che al suo interno ha una panca con un buco: gli escrementi vengono raccolti in una cisterna o una tinozza e poi gettati nelle campagne come fertilizzante.
Nei centri urbani più popolati, invece, le condizioni igienico-sanitarie sono migliori grazie agli interventi di bonifica e delle nuove tecniche edilizie. In alcuni casi ci sono ancora delle migliorie e dei lavori di ristrutturazione da apportare, soprattutto a case vecchie. Anche in città però non tutti possono permettersi il bagno in casa, e per ovviare a tale mancanza si istituiscono i “bagni cittadini” che consentono di lavarsi a fondo con docce e servizi con una minima spesa:
a Trento i bagni pubblici sono collocati in piazza Garzetti, al Diurno in piazza Cesare Battisti (ex piazza Italia, dietro al cinema Vittoria) e al Savoia in piazza Dante, di fronte al Grand Hotel Trento.
«Vivevo a Trento in una sorta di casa popolare, dove c’erano gli sfollati; c’erano grandi stanze con le tende dentro, c’erano il lavandino e i bagni, i bagni insomma… i cessi, in comune, nei corridoi. Si faceva il bagno una volta ogni tanto: c’era una grande tinozza di legno dove prima andava il figlio più piccolo, dopo la mamma e il papà; l’acqua era la stessa e nel catino si metteva un po’ d’acqua calda per mantenerla a temperatura accettabile. C’erano anche i bagni pubblici, ma noi avevamo i bagni in comune sul corridoio.» [Mauro Marcantoni, nato ]
«Le case erano come le caverne. Una volta c’erano le lampadine con al massimo dieci “candele”, altrimenti c’erano da tre “candele”, cioè come un lumino. Tanti avevano una lampadina e la ponevano a metà tra due stanze per fare luce da due parti, ma alla fine si vedeva poco sia da una parte che dall’altra. Nelle stalle, poche erano quelle che avevano le lampadine e le cantine erano completamente senza.
I servizi poi, erano tutti fuori. Dopo il 1960, tra il ’63 e il ’64, hanno iniziato a metterli in casa. Prima, in alcune case salivi le scale e la porta che trovavi all’esterno era il bagno con i servizi. E poi, non c’era mica l’acqua nelle case. Andavamo alla fontana in piazza. Poi hanno iniziato a mettere l’acqua anche nelle case, ma non tutti! Non era come adesso: l’acqua, se c’era l’allacciamento, usciva solo da un lavandino. Nelle case c’erano la cucina e due o tre stanze, il riscaldamento era il sole e in inverno si usava anche la legna nella stufa, ma solo per riscaldare la cucina. La maggior parte della legna veniva venduta e, per riscaldare, si tenevano le fascine e i rametti più piccoli. In inverno la camera faceva quasi zero gradi.» [Natale Remondini, nato a ]
Credit video: Memorie dell’Argentario
«La prima casa dopo sposata aveva camera e cucina; non c’era neanche il bagno. C’era il gabinetto dentro in casa. Era già ammobiliata, avevo un terrazzino che guardava davanti. La cucina era piccola, c’era la stufa, ma non c’era il frigo; venivo in città, facevo la spesa e prendevo cose che duravano, oppure le cucinavo e cotte duravano un paio di giorni.» [Erminia Pozzato nata a ]
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