L’epopea della barite
Nell’anno 1894 un imprenditore della bresciana Val Camonica di nome Giacomo Corna Pellegrini arriva nella Valle del Chiese, varcando il confine tra il Regno d’Italia e l’Impero Austro-Ungarico. Corna Pellegrini lavora nel settore dell’industria mineraria ed è stato chiamato in Trentino da un suo collaboratore, Tommaso Fabbri, convinto di essersi imbattuto in un filone di ferro nella montagna che si staglia vicino al paese di Darzo. Sebbene ad un’analisi più attenta non venga rinvenuta alcuna traccia di ferro, la zona si rivela essere molto ricca di barite, una pietra bianca dall’elevato peso specifico utilizzata nella produzione di vernici, plastiche, gomme, colle e stucchi.
Per il piccolo paesino di Darzo e tutte le comunità della Valle del Chiese e della vicina Valle Sabbia è l’inizio della cosiddetta “epopea della barite”, un secolo di grande fortuna, ma anche di grandi fatiche e sacrifici. In una zona economicamente depressa come il Trentino di fine Ottocento, falcidiata da fame e povertà e dall’emigrazione, il lavoro in miniera diventa il modo principale per le famiglie di Darzo e dintorni di guadagnare il pane quotidiano.
Nei decenni successivi, la febbre dell'”oro bianco di Darzo”, come viene soprannominata la barite, contagia altri imprenditori e vengono aperti molti nuovi impianti, alcuni fallimentari, altri così fortunati da continuare la loro produzione per decenni interi. È il caso dell’impresa Maffei, aperta nel 1925 a Darzo e chiusa nel 1964; della Cima, aperta a Pice a metà anni Venti e chiusa nel 1976; della Corna Pellegrini stessa, che, con l’impianto di Marìgole, riuscirà a toccare tre secoli, avendo aperto nel 1894 e chiudendo nel 2009.
Anche nella seconda metà del Novecento, quindi, la miniera costituisce il centro attorno a cui ruota tutta la vita e la fortuna degli abitanti di Darzo e dintorni. Una fortuna pagata a caro prezzo, con un lavoro faticoso e pericoloso. Tante sono le storie di persone legate alle miniere di Darzo: minatori, teleferisti, manutentori, autisti, mugnai, ma anche tante donne, incaricate in particolare del lavoro di cernita della barite dagli scarti.
Intervista a Giacomo Corna Pellegrini, nato a Brescia nel 1931, erede dell’impresa Corna Pellegrini, a cura di Associazione La Miniera:
«Ogni volta che, da inesperto, ho visitato la miniera di Marìgole, avevo un senso di smarrimento: il buio generale, rischiarato da poche lampade, l’umidità, il freddo e soprattutto la distanza dalla superficie e dalla luce esterna erano tutti elementi di grande fatica da superare. Soltanto la vicinanza di mio fratello Piero o di qualche suo collaborare mi rassicuravano. Ma quelle esperienze furono ogni volta abbastanza traumatiche.
Quando, alla fine di una galleria di molte centinaia di metri, trovavo due minatori che da ore stavano bucando la roccia con martelli perforatori, per preparare il posizionamento delle mine, mi rendevo finalmente conto di cosa significasse lavorare in miniera. Sono state esperienze che non ho più dimenticato. Anche l’esplosione delle volate di dinamite, una volta al giorno, quando tutta la montagna sembrava tremare, è difficile da dimenticare.»
Intervista a Carlo Igini, nato a Lodrone nel 1938, a cura di Associazione La Miniera:
Intervista a Maria Beltrami, nata a Darzo nel 1933, a cura di Associazione La Miniera:
«Ho lavorato come cernitrice della barite per la ditta Maffei dal 1950 al 1957. Ho cominciato quando si è sposata mia sorella più vecchia e ho preso il suo posto. Il lavoro, soprattutto all’inizio, era duro. Mi ricordo il freddo in inverno. Il nastro trasportatore passava e noi donne dovevamo scegliere la barite in base alla qualità: la bella, la brutta e il falso. Per scaldarci avevamo un secchio dietro la schiena con il fuoco: mentre in due sceglievamo, per esempio, la barite super più grossa, saliva il fumo ed eravamo tutte circondate.
Avevamo il fazzoletto legato in testa, gli zoccoli di legno e la vestaglia. La stanza dove lavoravamo all’inizio era tutta aperta e vicino a noi c’era la macchina “lavatrice” per lavare la barite. Poi ci hanno trasferito di sopra al chiuso con i vetri, ma dovevamo comunque lasciare tutto aperto perché altrimenti c’era troppo fumo e gli occhi lacrimavano.
Sette anni ho fatto così. Guadagnavo pochissimo, adesso non ricordo quanto, ma era comunque importante. Si cercava sempre di fare qualche ora in più per guadagnare qualcosa. […] Lavoravo dalle 4.00 di mattina a mezzogiorno o da mezzogiorno alle 20.00. Noi chiamavamo questi turni le “sciolte”. Quando si aveva il turno di mattina ci si alzava alle 3,30 d’inverno con il freddo. Poi la strada non era asfaltata e c’era buio. Ci si aspettava una con l’altra ed eravamo circa 10 per turno. […]
Allo stabilimento non facevamo solo le cernitrici, se comandavano bisognava fare anche altri lavori: spazzare il pavimento del mulino, sbattere i sacchi della barite sulla strada contro un muro così eravamo tutte bianche di polvere. Durante i turni di lavoro non erano previste pause per fare merenda. Quando avevamo il turno di mattina alle 4.00 mi portavo dietro il termos con il caffè latte e il pane, ma bisognava mangiare mentre si lavorava. Non c’erano neanche le ferie, perché nei mesi invernali quando il lavoro calava semplicemente ti licenziavano e poi, se c’era ancora bisogno, ti riassumevano in primavera.»
Intervista a Giancarlo Donati, nato a Darzo nel 1937, a cura di Associazione La Miniera:
Intervista a Vigilio Marini, nato a Darzo nel 1930, a cura di Associazione La Miniera:
«Ho iniziato a 17 anni a lavorare per la ditta Sigma. Il lavoro l’ho trovato tramite mia mamma che faceva le iniezioni alla moglie del proprietario, il dottor Felice Cima, che era malata. Parlando è venuto fuori che aveva un figlio che avrebbe potuto andar a fare il garzone su alla miniera. Per la ditta Sigma ho fatto il manovale per poco, perché mi hanno lasciato a casa per Santa Barbara e in primavera non mi hanno richiamato. Facevano così: in inverno lasciavano a casa la manovalanza e tenevano solo i minatori e i lavoratori di prima. Le decideva il padrone quelle robe lì.
Poi nel 1958 sono stato assunto dalla ditta Maffei e ho lavorato lì fino al 1962. Anche in questo caso il contatto l’ho avuto grazie alla mamma che era come l’infermiera del paese perché sapeva fare le iniezioni e la chiamavano tutti. Ho iniziato nel mese di maggio in Val Cornèra. Portavo fuori il materiale dalla miniera con i carrelli da 32-35 quintali spingendoli a mano perché all’epoca non c’era il locomotore.
Poi mi hanno spostato a lavorare nello stabilimento: ma c’era troppa polvere e nel 1962 ho lasciato la ditta e sono andato a fare un altro lavoro. Dal 1962 al 1966 ho fatto un altro mestiere. E poi nel 1966 sono stato assunto dalla ditta Baritina. In autunno di quell’anno sono andato in Marìgole dove ho fatto il teleferista per sedici anni, però se c’era bisogno andavo anche in miniera a fare il minatore o a portare fuori il materiale: bisognava adattarsi a fare di tutto.
Nel lavoro con i colleghi mi sono sempre trovato bene, c’era buona armonia tra di noi. Tra gli operai eravamo come fratelli. È inutile: quando sei sempre dentro nel buio e i pericoli sono tanti, c’è solidarietà. Il lavoro si imparava dagli altri più esperti e anziani mentre si facevano le cose: si andava in due, un manovale specializzato e il secondo. Quando ho cominciato avevo diciassette anni e stare sempre al buio mi pesava. Però invece di prendere la valigia e andare all’estero, io e altri abbiamo preso ‘l nòs prosàchì, lo zainetto sulle spalle e siamo saliti alle miniere. Era dura comunque: ho visto gente ritornare a Darzo dopo pochi mesi perché il pane della Svizzera era molto duro.
Con i padroni bisognava essere disponibili a fare di tutto ma mi sono sempre trovato bene con i capi: prima con Innocente Zanardi alla Maffei e poi con Gianvittorio Tanghetti alla Baritina. Comunque anche per la famiglia era dura perché partivo il lunedì e tornavo il venerdì o il sabato, poi certe volte non tornavo per stare a fare la guardia alla miniera perché c’era la polveriera e solo chi aveva il tesserino della guardia giurata poteva restare. Così succedeva che tornavo a casa dopo 15 giorni.»
Intervista a Dolores Balduzzi, nata a Darzo nel 1941, a cura di Associazione La Miniera:
Intervista a Italo Cavicchioli, nato a Darzo nel 1925, a cura di Associazione La Miniera:
«Ho iniziato a lavorare nel 1943 per la Maffei come bòcia; prendevo 90 centesimi al giorno e portavo i ferri ai minatori. Dopo un anno ho cominciato ad andare in galleria. Poi nel 1946 mi hanno trasferito allo stabilimento e fino al 1983, quando sono andato in pensione, ho fatto il mugnaio. […] Il lavoro mi ha permesso di sposarmi nel 1948 e farmi la casa nuova negli anni Cinquanta.
A me non piaceva stare dentro la galleria e allora una volta che ero venuto giù a caricare i camion ho visto il padrone e, piangendo, gli ho chiesto di poter venire giù allo stabilimento a fare il mugnaio perché non volevo più andar su e stare dentro la miniera. Così ho lavorato per il resto del tempo nello stabilimento. Macinavo la barite e insaccavo 30 sacchi di 50 Kg all’ora.»
Crdit materiale: Associazione La Miniera
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